Cappella di S. Jacopo
Nel 1315 (come documenta un'epigrafe
ancora murata sulla parete destra, entrando dalla scala a chiocciola,
dell'ambiente) il principale rappresentante di una delle più
abbienti famiglie mercantili e banchiere fiorentine del XIV secolo
(la stessa, per intendersi, che aveva la propria roccaforte entro
le mura di Firenze poi denominata "palazzo Ferroni"
e quindi "Ferragamo" presso il ponte a Santa Trinita)
poté trasformare lo spazio che fino ad allora era stato
l'"armarium" (armadio, contenitore per eccellenza degli
arredi sacri più preziosi) della chiesa monastica di Settimo
in cappella privata: Lapo Spini, essendo abate Dom Grazia, decise
di dedicare l'ambiente, per la salvezza della propria anima, a
San Jacopo Maggiore, il simbolo per eccellenza dei pellegrinaggi
dalla Terra Santa alla Galizia attraverso Roma e viceversa, che
Proprio a Settimo sappiamo aver avuto spesso, per secoli, importante
tappa. A visualizzare i principali episodi della vita del Santo,
Lapo chiamò uno dei pittori più in voga nella Firenze
del primo Trecento, oggi comunemente più noto come scanzonato
e faceto protagonista di novelle del Boccaccio e di Franco Sacchetti
piuttosto che come illustratore di agiografie: Bonamico di Martino,
detto "Buffalmacco".
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Ce lo dice un'autorità, un appassionato
ed un intenditore che non si può insistere (come invece la
Critica ufficiale continua a fare) a mettere in dubbio: si tratta
niente di meno che di Lorenzo Ghiberti, che lo afferma nei suoi
"Commentari" e che oltretutto fu "di casa" a
Settimo, avendo nelle sue vicinanze un'amata residenza di campagna
(l'ancora miracolosamente in parte superstite "Palazzaccio")
e contò addirittura un nipote tra i monaci cistercensi di
Badia. Le pitture ad affresco (nonostante distacco e restauri a
partire dal 1957) sono in cattive condizioni per tre motivi: primo,
l'ambiente estremamente umido, come evidenzia la differenza di livello
rispetto agli ambienti circostanti; secondo, la cattiva tecnica
usata dal pittore e denunciata già dal Vasari nel XVI secolo;
terzo, l'utilizzazione, grattando i fondi che non a caso sono del
colore rosso-bruno abituale per le "preparazioni", dell'azzurro
oltremarino originale da parte di Domenico del Ghirlandaio, cui
lo scempio fu permesso addirittura con contratto sottoscritto anche
dai monaci, purché riadoprasse il raro colore in un ciclo
di pitture previsto - ma mai realizzato - per il coro della chiesa.
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